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Altri distillati

Distillati di Vinaccia

La bagaceira è un distillato di vinacce prodotto in Portogallo. La sua produzione viene assimilata a quella della grappa italiana, di cui è parente molto stretta. Viene prodotta con le vinacce delle uve spremute nelle regioni vinicole del Verde, Minho, Douro, Barraida, Alentejo e Algarve. Il nome deriva da “bagasu” il graspo del grappolo. L’area migliore per la provenienza della materia prima secondo gli esperti è la zona del Vinho Verde in virtù dell’ottima acidità espressa da questi vini bianchi del nord del Portogallo. A differenza dell’Italia, che vede una netta predominanza della produzione di grappa con vitigni aromatici come il moscato, questa area non ne produce. Il tenore alcolico minimo deve essere di 37,5 ad un massimo di 52 per i prodotti a “grado pieno”, tipici di certe produzioni artigianali. Non esiste un disciplinare ferreo per la sua produzione, ma molti sostengono che i migliori distillatori insilano le vinacce entro e non oltre le 24 ore dalla spremitura e che la materia prima non viaggi oltre i 10 km dalla zona di produzione. E’ previsto un invecchiamento facoltativo, a seconda del mercato a cui ci si vuole rivolgere, e può variare da un minimo di un anno ad un massimo di sei, ma non mancano casi di elevazione superiore.

La Georgia è il paese che vanta la più antica tradizione enologica mondiale.
Le prime testimonianze della vinificazione sono in questo paese, il cui clima temperato ha permesso, per primo, la nascita della viticoltura.
Qui vi sono le varietà domestiche più antiche del mondo e la loro vinificazione avveniva già 5.000 anni fa, ed ancora sporadicamente avviene, nelle tradizionali anfore interrate. Un paese con una tradizione millenaria, in cui, probabilmente, anche la distillazione ha mosso i primi passi, non poteva non produrre acqueviti di origine enologica.
La Chacha o Tchatcha è l’equivalente della nostra grappa, di cui ricorda da vicino anche il profumo e gusto.
Con questo termine in Georgia si definiscono in generale anche altri distillati di origine frutticola, ma quello di vinacce rimane quello per cui questo paese si distingue.
Le origini del distillato sono ovviamente contadine ed aveva un’iniziale funzione terapiche, digestive e ricostituente.
A differenza di altri stati, la distillazione di chacha casalinga è tollerata dalle autorità locali.
La chacha veniva e viene tuttora aromatizzata con frutti, ad esempio fichi, mandarini, aranci, e more
Un classico era anche l’aggiunta di Dragoncello o Estragone, una pianta sempreverde della famiglia delle Artemisie.
Questa variante, con una gradevole scia amara, aveva un impiego aperitivo-digestivo in tutte le famiglie e recentemente l’interpretazione della Binekhi Distillery ha vinto la medaglia d’argento alla competizione Mondus Vini.
I produttori impiegano sia vitigni bianchi che rossi per la produzione di questa acquavite, e la moda del monovitigno non risulta essere molto seguita, se non con un’eccezione: il Saperavi, l’unico ad avere una sua etichetta.
Il Saperavi è un vitigno che dona vini di un bel rosso rubino, freschi, giustamente tannici con una gradazione non elevata, tutti elementi ideali per la distillazione.

Distillato del Sudafrica ottenuto dilavando le vinacce con acqua calda (pratica vietata in Europa).

Se il Marc viene ottenuto dalle vinacce, il Fine si ottiene distillando i sedimenti delle bottidei grandi vini di Borgogna, composti da lieviti e piccole particelle dell’uva non eliminate con la prima filtrazione. I produttori di questo distillato lo considerano un figlio del vino, poichè i profumi sviluppati da questa acquavite sono veramente fini, fruttati e corrispondenti al vitigno, rispetto al marc. Le aree sono quelle più vocate alla produzione di grandi vini, come Vosnee Romanee, Volnay, Pommard , Gevrey Chambertin e Aloxe Corton. Questa “sottozone” della AOC citate non sono vincolanti, ma la materia prima può arrivare da qualunque altra area della Bourgogne. I grandi vini da Pinot Nero e Chardonnay provenienti da queste zone sono da sempre ricchi di sedimenti che sono trattati con la tecnica del batonnage, che li rimette in circolo. Al termine del periodo di affinamento in botte, si fanno sedimentare le parti solide, dopo di che si svuotano le botti per imbottigliare il vino. Il sedimento sul fondo ricco di profumi ed alcol si distilla in alambicchi discontinui per ottenere l’acquavite. Questa viene messa poi in botti di rovere dove sosta per un periodo variabile da 6 a 10 anni. 

Distillato francese ottenuto con la medesima tecnica sopracitata con sedimenti provenienti della zona dello Champagne.

Distillato di vinaccia prodotto in Serbia.

Con Marc si intende il distillato di scuola francese ottenuto da vinacce fresche. Il più famoso è prodotto nella regione dello Champagne, seguita dalla proposta Alsaziana.
Marc è anche il nome del torchio in uso in Champagne della capienza di 4000 chili di uva.
Il marc è un prodotto interessante con caratteristiche organolettiche di profumo e morbidezza ottime, ma che trova pochi sbocchi commerciali in Italia, chiuso da una concorrenza numerosa e qualificata.
Il metodo produttivo è praticamente il medesimo della grappa, di cui segue le fasi: raccolta delle vinacce fresche, la rifermentazione di quelle bianche, la distillazione in alambicchi di rame, solitamente a bagnomaria discontinui. La gradazione di uscita dell’alcol dall’alambicco è di circa 70% a volume (72 il massimo da disciplinare) , per mantenere le caratteristiche di profumi e fragranza intatti, mentre quella della sua commercializzazione si aggira da40 a 45% a volume. Nell’area dello Champagne viene prodotto con le vinacce fresche ottenute dalla spremitura del “vin de cuvee”, ancora ricche di mosto, che vengono fermentate seguendo la tecnica dell’insilamento. La distillazione viene spesso eseguita dalle stesse maison che producono lo Champagne, ma la sua presenza in gamma prodotti non viene molto enfatizzata. Billecart  Salmon e Moet & Chandon producono marc, per citare due colossi dell’area, ma questo viene venduto praticamente solo presso le loro Maison. Nel resto della Francia, le altre due aree a grande tradizione enologica come Borgogna e Bordeaux, non hanno mai spinto il concetto del Marc, pressochè irreperibile, preferendo concentrarsi sulla vendita dei vini, lasciando ai grandi distillati da vino, Armagnac e Cognac, il ruolo egemone della proposta dei “derivati da vino”.
Al di fuori dello Champagne, troviamo l’ottimo Marc delle AOC Alsazia e Arbois.
La prima, situata nel nord est della Francia è famosa per gli ottimi bianchi da Riesling e Gewurtztraminer, che ricordano da vicino il nostro Moscato. La AOC Arbois, si trova invece nello Jura francese, nel sud est della Francia, ed il paese omonimo è ricordato per aver dato i natali a Louis Pasteur, padre della moderna enologia. Qui si produce un Marc ottenuto con le vinacce del vitigno autoctono Savagnin Blanc. L’area si distingue per essere coltivata principalmente con vitigni autoctoni, di lunga tradizione come il Poulsard e il Trousseau, scomparsi altrove. Arbois è una eccezione molto interessante nel panorama vitivinicolo francese che si caratterizza per la colonizzazione di Cabernet Sauvignon, Pinot Nero, Grenache e Chardonnay. In questa AOC, la più antica di Francia, vengono prodotti vini bianchi da Savagnin B. ossidati e vini dolci naturali di ottima fattura e un interessante marc. Quest’ultimo viene anche miscelato al succo d’uva da Savagnin ancora da fermentare per ottenere il Macvin.
Mutizzando il succo d’uva con questa acquavite si ottiene un prodotto molto interessante e connotato dal distillato, che mantiene però spiccate caratteristiche di freschezza grazie al succo d’uva, ricco di acidità. Utilizzato come aperitivo e dopo cena nel territorio di origine, non ha una diffusione nazionale.

Distillato di vinaccia del nord della Spagna, tipico della Galizia e delle Asturias, la cui nascita si fa risalire al XVI secolo.
Le prime notizie, datate Basso medioevo, ci giungono da un monastero nella contea di Liebana.
La sua produzione, inizialmente famigliare e artigianale, è simile a quella della grappa. Ora è disciplinata dal Consocio Galicien de Orujo de Galicia che vede raggruppati 20 produttori.

Distillato di vinaccia (pomace), in americano pomace, di origine californiana. La California detiene in America il primato per la produzione di vini di qualità.

Distillato di vinaccia prodotto in Grecia e in tutta la fascia balcanica. Spesso viene aromatizzato con semi di anice. Viene servito con fette di anguria fresca.

Acquavite di vino prodotta in Bolivia e salita alla ribalta nel 2015 poiché una distilleria, Casa Real, ha vinto, in Spagna, un premio come miglior distillato al mondo.
L’acquavite è ottenuta da Moscato di Alessandria, il vitigno aromatico che ha al suo attivo svariate declinazioni, dal pisco peruviano all’italica grappa.
La particolarità è che le vigne crescono a 2000 metri di altezza in virtù del clima caldo, ma a questa altitudine si verificano gli sbalzi di temperatura necessari allo sviluppo dei sentori aromatici del vitigno.
Le doc boliviane non sono molte in virtù del clima tropicale che rende difficoltosa la coltivazione della vite sotto certe altitudini. La maggioranza delle aziende, compresa la vincitrice del premio, utilizza alambicchi discontinui di scuola francese charentais come si comprende bene osservando la foto proveniente dagli impianti di Casa Real.
La distilleria è di recente fondazione ed è nata nel 1981 per mano di Don Luis Granier Ballivián, proveniente però da una famiglia la cui tradizione legata alla coltivazione dell’uva ed alla distillazione risale al 1925.
Il distillato può essere consumato giovane dopo un breve riposo (sei mesi circa) o invecchiato anche lungamente (15 anni) in botti di legno. La maggioranza della produzione è concentrata sulla prima tipologia.
Il primo viene spesso consumato su ghiaccio complice il clima della regione o in semplici cocktail che ricordano da vicino quelli dei cugini peruviani.
Il cocktail consigliato da Casa Real è il chuflay con 4 cl di singani, soda lima-limon (gassosa) e fetta di limone.

Il Trester è un’acquavite poco diffusa in Germania, ottenuta dalla distillazione delle vinacce, seguendo delle procedure produttive del tutto simili alla nostra grappa.
Anche qui si usa disalcolare le vinacce e procedere ad una seconda distillazione con passaggio in colonna di rettifica. Il gusto è molto vicino alla grappa, ma decisamente meno fine, infatti la Germania risulta essere il primo mercato europeo per la nostra acquavite di vinaccia.
Fra di essi spicca il re dei vitigni bianchi, padrone assoluto dell’enologia tedesca: il Riesling.
Le realtà produttive sono rare e la sua diffusione è molto regionale, ubicata nelle aree vitivinicole tedesche come il Reno e la Mosella.

Distillati di Frutta

Nei distillati di frutta bisogna distinguere fra le due tipologie:

  • Acquavite di fermentato di frutta, dove la polpa viene lavorata come una qualunque materia prima fermentescibile con lieviti e poi distillata
  • Acquavite di infuso di frutta, dove viene estratto il solo principio aromatico

La differenzia sostanziale saranno gli aromi secondari, quelli della fermentazione che daranno maggior complessità al distillato, ma soprattutto struttura, permettendo in questi casi anche degli invecchiamenti.

In Val Camonica, in Provincia di Brescia, area di elezione per le castagne, si era soliti ottenere tutta una serie di prodotti di uso comune (dal pane alla birra) ottenuta con la saccarificazione delle stesse. Come noto, dalla distillazione della birra nasce il whisky, allo stesso modo questa popolazione distillava il fermentato di castagne, ottenendone un distillato dal caratteristico sapore di frutta secca.
Questa produzione è in uso anche in Corsica , nella zona della Castagniccia,dove crescono rigogliosi alberi di ottimi marroni, dalla quali i corsi ottengono la Pietra, la birra corsa di castagne e un distillato che ricorda quello bresciano.

Ottenuto dalla distillazione di sidro di ciliegie prodotto in Austria, Svizzera, Germania (Foresta Nera), ed in Francia.
Da segnalare che il Kirsh di Basilea, gode di una sua IG territoriale ed è inserito fra i presidi di Slow Food.
La preparazione del fermentato è simile a tutti gli altri processi che vedono la frutta come materia prima.
Si raccoglie la frutta a piena maturazione, si preme delicatamente e si mette a fermentare in silos di media capienza con lieviti selezionati o, in rari casi, selvaggi.
L’unica differenza è legata alla presenza o meno dei noccioli nella fase di fermentazione.
Questa scelta influenza non poco le caratteristiche organolettiche finali dell’acquavite che avrà, o meno, i sentori tipici della mandorla amara, dati dal Benzoino, contenuto nell’interno dei semi.
La fermentazione della frutta è molto lunga e dura due settimane circa.
I profumi delicati della materia prima devono essere mantenuti pertanto si procede ad un controllo delle temperature per evitare fermentazioni tumultuose.
La gradazione alcolica del fermentato dipende dalla stagionalità positiva o meno e può variare da 8 ai 9 gradi, ma ciò che è più importante è la maturazione aromatica.
Una volta terminata la fermentazione, il liquido viene distillato in alambicchi discontinui di piccole dimensioni, dove avviene il processo di separazione fra teste, cuore e code.
Le dimensioni contenute sono fondamentali per mantenere la ricchezza di profumi.
Il cuore avrà una gradazione variabile dai 62 ai 68 gradi, influenzata da quello di partenza del fermentato. Normalmente si effettua una sola distillazione poiché non si vuole impoverire e rettificare troppo il distillato. La piccola colonna sovrastante la caldaia serve appunto per separare le impurità e l’eccesso di Benzoino.
Dopo la distillazione normalmente l’acquavite viene affinata in botti di Troncais o Limousin di secondo e terzo passaggio per un breve periodo.
In altri casi l’affinamento è in acciaio, terminato il quale il distillato viene filtrato  (nella foto un filtro a cartoni) e posto in vetro per breve periodo necessario alla sua ulteriore stabilizzazione.
Per dare un’indicazione al consumatore profano il profumo del kirsh risulta molto simile al nostro Maraschino, ottenuto per distillazione di ciliegie marasche. È in bocca che cambia il profilo risultando secco, per via del divieto assoluto di zuccherare il composto finale.
La dolcezza è solo percepita ed è per via delle caratteristiche del frutto stesso.
Inoltre se il distillatore avrà mantenuto i noccioli all’interno del fermentato si avrà una classica nota ammandorlata ed erbacea.

Ottenuto dalla distillazione di sidro di prugne della qualità pozega, sliva e shiva (Ungheria).
Si produce in Slovenia, Serbia, Croazia, Austria, Italia, Ungheria e Francia.
Normalmente sono necessari dagli 8 ai 10 chili di frutta per ottenere un litro di acquavite, a seconda delle varietà dei frutti. La raccolta avviene da settembre ad ottobre a piena maturazione e la fermentazione si protrae da due a quattro settimane, a seconda che si abbiano a disposizione tini refrigerati o del grado zuccherino del frutto. I lieviti possono essere selvaggi, contenuti sulla buccia, selezionati appositamente da frutta, o semplicemente da pane, a seconda della scuola di pensiero.
La distillazione avviene, nella maggioranza dei casi, in alambicchi da frutta discontinui, con un grado di uscita compreso fra i 50 e i 60 gradi. In alcuni casi si possono raggiungere gli 80 gradi sul secondo passaggio, specie se si ha a disposizione un discontinuo con piccola colonna di rettifica.
L’acquavite può essere invecchiato a discrezione del produttore, anche se non appare quasi mai in etichetta nè il millesimo,nè gli anni totali.
Spesso prima dell’imbottigliamento si procede a miscelare le acquaviti di anni ed invecchiamenti diversi per avere un’uniformità di risultato come già avviene per atri distillati. Nei prodotti migliori, dopo l’assemblaggio, il distillato sosta ancora per alcuni mesi in bottiglia per arrotondarsi ulteriormente.

Distillato di nicchia all’interno del panorama francese, tradizionalmente prodotto nella zona della Lorena, nel Nord Est della Francia, con piccole prugne gialle, ribattezzate “L’oro della Lorena”.
La materia prima per produrre la Eau de Vie de Mirabelle è la piccola prugna giallo dorata che dà il nome al distillato.
La sua raccolta avviene da settembre ad ottobre, quando vengono poste le reti alla base degli alberi, poi delicatamente scossi nel tronco da bracci meccanici. Lo scuotimento meccanico avviene con micro scosse che non danneggiano l’albero.
Solo le prugne mature cadono ed è per questo motivo che la raccolta, se si vuole fare un prodotto di qualità, deve necessariamente essere fatta in più passaggi.
Includere nel fermentato prugne verdi donerebbe troppi tannini verdi ed acidità eccessiva.
La prugna matura è abbastanza dolce ed ha una frazione acida importante, caratteristica necessaria ad un ottimo distillato.
Come nel Cognac, un eccessivo grado alcolico del fermentato ed una mancanza di acidità, darebbero prodotti eccessivamente alcolici e privi di profumi.
Per produrre un litro di Mirabelle sono necessari 8 chili di prugne, a dimostrazione del grado zuccherino non elevato e della bassa resa in succo, che vengono delicatamente pressate e messe a fermentare.
Alcuni produttori preferiscono inoculare lieviti selezionati, mentre altri utilizzano la pruina naturale, la patina bianca che contraddistingue la buccia delle prugne, come innesco.
L’uso di lieviti selvaggi impone poi la miscelazione delle varie partite per omogeneizzare il risultato della fermentazione, mentre l’uso di lieviti selezionati crea fin da subito una certa omogeneità nel mosto.
La fermentazione sarebbe abbastanza rapida e tumultuosa, ma si preferisce controllarla con speciali tank refrigerati, prolungandola per circa sei settimane, in questo modo i profumi delicati delle prugne vengono preservati.
Finita la fermentazione, il “vino” di prugne ha un grado alcolico compreso fra i 5 e i 9 gradi, a secondo delle stagioni.
L’alto grado iniziale metterebbe a rischio il processo basato sulle due distillazioni, dando un risultato finale troppo alcolico.
La distillazione vede due scuole di pensiero: in alcuni casi si procede alla torchiatura e filtrazione per l’eliminazione dei noccioli e della polpa delle prugne, in altre distillerie si preferisce mettere nella caldaia la massa intera.
La distillazione dei noccioli dona al distillato il classico sentore in chiusura di bocca di “amaretto” o “apricot brandy”, la cui materia prima sono i noccioli di albicocca.
L’eau de vie viene messa a riposare per due anni, necessari al suo arrotondamento in botti di legno di secondo passaggio o di acacia, mentre la riserva arriva a sostare anche 5 anni.
L’invecchiamento massimo raggiungibile in botte, per la struttura organolettica del prodotto, è di 20 anni. Dopo questo lasso di tempo il prodotto si terzializza eccessivamente perdendo le note eleganti del frutto.
I prodotti giovani non hanno colore, mentre la riserva arriva ad avere al massimo una sfumatura di giallo ambrato, mantenendo i profumi freschi di frutta della materia prima.
La riserva viene prodotta con partite la cui distillazione abbia dato risultati di struttura superiori, dati dalla materia prima di eccezionale qualità in virtù di una stagione particolarmente favorevole..
Terminato l’affinamento il distillato viene diluito con acqua distillata ed imbottigliato.
La gradazione alcolica di solito si aggira dai 40 ai 45 gradi, a seconda della tipologia e della politica del produttore.
Il consumo della Mirabbelle avviene tradizionalmente nel fine pasto, dove viene servita a parenti ed amici ad una temperatura di 6 gradi, ma esiste anche una versione Collins aperitiva fatta con succo di limone, acqua e zucchero.

Unico esempio di distillazione del frutto fermentato del fico d’india, che altrimenti vanta solo parecchi liquori in infusione di tradizione mediterranea.
L’isola è famosa per essere stato l’ultimo esilio di Napoleone, che qui si spense nel 1821.
Sicuramente il distillato non era ancora presente, se è vero che Napoleone qui si portò due barili di Cognac Courvasier per alleviare le pene della solitudine
Nel 1857, l’annoiata guarnigione inglese di stanza sull’isola, sperduta nell’oceano, decise di distillare il fermentato ottenuto con i prockypear, il nome inglese per questi frutti, sfruttando le conoscenze derivanti dai processi produttivi di whisky e rum.
L’isola importante crocevia durante il secolo delle navi a vela, perse d’importanza con l’arrivo delle traversate a motore.
Il concetto produttivo ricorda quello dei distillati di frutta in genere, con la polpa spremuta ed annacquata messa a fermentare per ore, per poi fermentare il succo alcolico filtrato.
La sua produzione è limitata alla quantità di frutti raccolti sull’isola, in quanto sarebbe anticommerciale importare frutti in questo angolo sperduto del mondo, “famoso” solo per la produzione di patate e l’allevamento di pecore.
I frutti sono particolarmente squisiti poiché questa pianta dimostra di gradire molto i terreni vulcanici di cui è composta l’isola.
Il distillato sta avendo solo ora una piccola diffusione al di fuori dell’isola, trasportata dalle navi che si fermano per fare rifornimento e scaricare i turisti in cerca di pace in questo piccolo puntino sperso in mezzo all’oceano Atlantico.
Presto però il turismo di massa potrebbe far tappa nell’isola poichè sta venendo ultimato un aereoporto internazionale.

 Il fermentato di fico d’India viene prodotto anche in Italia, che normalmente ha una tradizione di liquori in infusione, dalle caratteristiche morbide, dolci e profumate. Il distillato non poteva che essere fatto nella terra d’elezione italiana per eccellenza nella coltivazione di questo frutto: la Sicilia. Qui la pianta ha trovato la sua terra d’elezione sulle pendici dell’Etna, dove cresce sui suoli di origine vulcanica. La Distilleria Giovi ne distilla il fermentato producendo un’acquavite potente, pungente al naso, con ricordi fruttati ed un finale tannico. Un prodotto lontano dai liquori rosa pallido e dolci a cui siamo abituati normalmente. Un prodotto coraggioso che potrebbe essere utilizzato per realizzare “batida” di territorio con il frutto stesso.

Acquavite prodotta in Francia e Svizzera,distillando un’infusione alcolica di lamponi di bosco. In Germania questo prodotto si chiama Himbeergeist. In Italia non è distribuito ed è poco più che una curiosità con vendite molto limitate. Dopo la scomparsa del Cordial Campari rimane l’unico prodotto a poter essere usato in miscelazione con i profumi del lampone. Il metodo produttivo prevede un’infusione alcolica, presumibilmente ad una gradazione non elevata, per non “bruciare” i frutti. Dopo 4 settimane, il risultato viene allungato con acqua indicativamente sui 20, 25 gradi, uguale a quella data dal primo passaggio della distillazione discontinua. Dopo il processo fisico, condotto in alambicchi discontinui con il classico taglio di teste e code, l’acquavite sosta almeno 16 mesi in acciaio per stemperare il carattere ed arrotondarsi o per un periodo più lungo in botte. Prima dell’imbottigliamento si miscela una cuvee delle differenti annate per avere un prodotto dalla qualità costante.

Distillato di infuso di more della Foresta Nera, il cui metodo produttivo è uguale a quello dell’Himbeergeist. 

Distillato di succo di pere fermentato della specie William’s, tradizionalmente prodotto nel dell’Europa Centrale, dalla Normandia alla Svizzera.
La pera Williams, conosciuta anche come Bartlett, è la specie più coltivata al mondo e la sua cultivar fu sviluppata nel 1765 in Inghilterra.
Il metodo produttivo è del tutto simile a quello del sidro di mele.
Si raccolgono le pere da ottobre a novembre, a seconda della stagione più o meno favorevole, e si mettono a maturare ed appassire ancora per qualche settimana nei solai, per rendere più morbida la polpa.
Dopo di che si pressano, eliminando bucce e semi.
La fermentazione dura alcune settimane in silos refrigerati, poi si procede alla distillazione del sidro di pere, in alambicchi discontinui.
Il fermentato ottenuto ha una gradazione alcolica piuttosto bassa, variabile dai 3 ai 4 gradi alcolici e questo influenza il risultato finale che risulta più basso come “resa” rispetto a ciliegie e mele. Per ottenere un litro di distillato infatti sono necessari circa 11 chili e mezzo di pere. La fermentazione si protrae per circa 8 massimo 10 giorni in tini refrigerati a 16 massimo 17 gradi per far rendere al massimo i lieviti che possono essere sia dedicati, da frutta, che semplicemente da pane, a secondo delle scelte del distillatore.
L’acquavite ha un grado di uscita dal collo di cigno compreso dai 50 ai 55 gradi e normalmente viene elevata per un periodo variabile in legno e in bottiglia affinché perda la naturale irruenza della gioventù.
Prima dell’imbottigliamento spesso si procede ad un assemblaggio delle varie acquaviti che hanno sostato in legno, per avere un prodotto uniforme nella qualità, dopo di chè si lascia ancora riposare in bottiglia per alcuni mesi.
Un vero peccato che in Italia questo tipo di distillato non abbia molto seguito e consumo poichè rappresenta un vero capolavoro, adatto alla miscelazione ed agli abbinamenti con il cibo, primo fra tutti con dolci alla frutta o formaggi.

Distillato di sidro di mele prodotto in America e Inghilterra, parente stretto del Calvados francese, anche se i  produttori normanni orgogliosamente rifuggono questa semplicistica classificazione.
Normalmente il Calvados, soprattutto dei pay d’Auge risulta più fruttato, mentre l’Apple Jack risulta più secco e giocato sulle note del legno anche per via della distillazione in colonna.
La produzione è del tutto simile all’acquavite francese con una fermentazione delle mele ed una distillazione in alambicchi a colonna a basso grado.
Dopo la raccolta le mele vengono pressate e fatte fermentare in grandi vasche con temperatura controllata e lieviti selezionati.
Dopo la filtrazione il fermentato viene passato in alambicco dove esce ad una gradazione di circa 80 gradi, leggermente superiore al Calvados, da qui spiegato il minor profumo di materia prima, dovuto ad una maggior raffinazione.

Acquavite prodotta in Egitto distillando la polpa fermentata del dattero. Il nome Boukha viene utilizzato anche per descrivere acquavite di fichi tunisina, poichè con questo termine arabo si intende in generale un prodotto alcolico.
Il metodo produttivo è semplice, grazie alle caratteristiche del frutto molto zuccherino che viene ridotto in poltiglia ed addizionato ad acqua per innescare la fermentazione. Il vino di datteri, consumato anche in questa forma dalle popolazioni locali del Medio Oriente, viene successivamente distillato. Il risultato è molto forte e piuttosto ruvido ed è difficilmente bevibile se non si è abituati a gradazioni alcoliche prossime ai 70 gradi.

Distillato di fichi di origine tunisina. Il metodo produttivo è simile a quello di altri prodotti frutticoli. Il fico al massimo della sua maturazione zuccherina viene ridotto in poltiglia, mescolato con acqua e fatto fermentare. Questa acquavite veniva consumata in Tunisia dalle famiglie ebree durante le feste importanti quali i matrimoni, in maniera morigerata, in quanto il consumo d’alcol non è vietato, ma deve essere solo con funzione socializzante e non inebriante.

Si consiglia di bere il prodotto fresco o ghiacciato a fine pasto, in accompagnamento con frutta fresca, come melone o anguria.

Distillato di origine ugandese prodotto generalmente con manioca, banane o canna da zucchero. Con questo termine si indica generalmente la bevanda alcolica, mentre non viene quasi mai indicata la materia prima.
La distillazione di questo prodotto fu incentivata dagli inglesi che volevano in questo modo infondere coraggio nei soldati impegnati nelle numerose guerre coloniali dell’area africana. Il distillato veniva somministrato alle truppe nubiane impegnate nei cruenti combattimenti per la conquista delle ricche miniere di rame e cobalto dell’area.
Il nome “waragi” pare che derivi proprio da “war gin”, una sorta di soprannome dato dai locali, come fecero gli inglesi con il Jenever olandese soprannominato “dutch courage”, in grado di infondere uno spirito guerriero fra le file degli Orange.
Il metodo produttivo è del tutto simile a quello del rum, se la materia prima è la canna da zucchero, mentre per il distillato di banana o manioca, la polpa viene ridotta in poltiglia e fatta fermentare con acqua. Il più famoso waragi di banane arriva dal paese di Kasese, villaggio minerario noto per l’estrazione del rame.
Il metodo di distillazione è molto spesso artigianale e nel distillato ci sono impurità e odori indesiderati. Il distillato prodotto a livello famigliare ha anche una parte di metilico, prodotto dalle parti fibrose del vegetale, che non viene eliminata, mancando le colonne di rettifica.
Nel 2010 ci sono stati casi di waragi adulterato con metanolo, scandalo di italica memoria, che ha provocato la morte di molte persone. Il waragi da esportazione che possiamo trovare nei negozi africani ha avuto almeno due se non tre distillazioni, all’interno di distillerie attrezzate con alambicchi moderni a colonna.

Distillato russo ottenuto dalla fermentazione del succo di un tipo di anguria molto dolce, la cui polpa acquosa viene spremuta.

Distillato di piccole banane tipiche prodotto in Turchia.

Il distillato principe dell’Ungheria, nazione dal grande e glorioso passato e dalla tradizione enologica consolidata, patria del meraviglioso vino Tokaj.
Con questo termine si intende una bevanda alcolica in genere infatti normalmente viene seguito dalla materia prima ad esempio quella da vinaccia viene detta Torcoli Palinka.
Le prime testimonianze sulla distillazione nel paese ci arrivano, come del resto d’Europa, nel XIV secolo, quando si riferisce di un’acquavite servita a curare la moglie di Carlo I di Ungheria.
Diretto discendente di Carlo II Re di Napoli, fu il primo regnante ad unire i territori di Ungheria e Croazia, a introdurre nuove monete e codici di onore. La potenza e l’importanza di questo sovrano faranno sì che le cronache riportino questa notizia, fondamentale per datare la nascita della Palinka.
Non si hanno notizie sulla materia prima del distillato, ma è pensabile, vista la tradizione enologica del paese, che si trattasse di brandy o di una sorta di grappa.
Le cronache storiche riferiscono di un’acquavite di grano prodotta a partire dal XVII secolo, mentre successivamente si iniziò a produrla con frutta.

È tradizione popolare che il santo patrono dei distillatori di palinka sia San Nicola.
Le ragioni sarebbero da ricollegare alla tassazione del grano operata dal governo centrale e soprattutto dal fatto che non si poteva sottrarre una così importante materia prima per la produzione del pane, alla base dell’alimentazione del periodo.
La distillazione ufficiale, come in Russia, era in mano ai nobili, ma nelle campagne si producevano decine di litri di acquavite di contrabbando.
Le prime distillerie appariranno alla fine del 1800, così come nel resto d’Europa, e solo le due guerre mondiali ne bloccheranno il successo.
Specie la Seconda con le distruzioni naziste e la successiva dominazione sovietica, che nazionalizzò tutte le attività private.
Il fatto che l’albicocca sia il frutto più pregiato ed indicato per la sua fabbricazione, anche se esistono palinka di prugne e pere, è dato dal fatto che esiste un’acquavite prodotta con una specie pregiata, quella di Gonc, tutelata da Denominazione di origine controllata.
L’area geografica è protetta e l’albicocca viene distillata in loco, per potersi fregiarsi della denominazione speciale.
La zona ha un clima molto particolare, fatto di escursioni termiche, molto sole e poca pioggia, caratteristiche comuni a tutte le aree di eccellenza di produzione della frutta.
La produzione prevede che non vi siano frutti marci o rovinati ed è assolutamente proibito congelarli, pertanto la fermentazione e la distillazione devono essere portate a termine in brevissimo tempo. In linea di massima, per ottenere un litro di distillato, sono necessari 15 chili di frutta.
La fermentazione viene fatta in tini a temperatura controllata e si protrae da un minimo di 10 giorni ad un paio di settimane, a seconda del grado zuccherino delle albicocche e dell’utilizzo o meno di tini di acciaio termo controllato, che rallentano il processo fermentativo. 

La distillazione viene eseguita sul mosto fermentato senza nessun tipo di filtrazione.
La resa degli alambicchi, normalmente discontinui a bagnomaria, è una resa comune a quelli di altri distillati, infatti ci vogliono circa 100 chili di albicocche per ottenere circa 15 litri di acquavite.

L’albicocca si contraddistingue per un naso particolarmente fine, poco intenso, per sprigionarsi completamente in bocca con una vera esplosione di frutta matura.
Ogni partita riposa per circa due anni, per arrotondarsi prima di essere messa in commercio.

La tuica (pronunciato tzuica) è il distillato nazionale romeno ed è, anche in questo caso, un nome generico dato ad un prodotto alcolico distillato.
Viene prodotto a partire dalla frutta, normalmente prugne, che in questa nazione hanno trovato un terreno ideale, meno frequentemente con altre varietà ad esempio cachi o albicocche a secondo della regione di produzione.
Le prugne più utilizzate sono di colore viola scuro ed appartengono ad un biotipo che ha il frutto carnoso, la cui forma ricorda quella di una piccola pesca, ben visibile nella foto della Tuica Bran (una delle più famose), ma non mancano anche quelle classiche allungate (da noi conosciute come Big Egg).
Il processo produttivo ricorda da vicino quello di altri distillati dell’Est Europeo, come lo slivovitz di Slovenia e Croazia e la palinka ungherese.
La frutta viene spremuta grossolanamente e viene fatta fermentare per poi essere distillata in alambicchi discontinui classici o con piccola colonna di rettifica.
Essendo la produzione artigianale e famigliare molto diffusa gli alambicchi spesso sono molto rudimentali ed il taglio di teste e code è legato alla saggezza del distillatore.
La fermentazione può essere condotta con o senza nocciolo, a secondo della tradizione, così come i lieviti possono essere selvaggi o selezionati.
I prodotti industriali, meno diffusi di quanto ci si possa aspettare, non sono moltissimi e richiamano alla tradizione romena come. 

Vi sono anche delle versioni invecchiate in legno ma la maggioranza del consumo avviene con i prodotti giovani, un po’ come accadeva con la nostra grappa nel recente passato.
I profumi dei prodotti giovani sono varietali e ricordano la materia prima utilizzata con freschi sentori fruttati tipici mentre gli invecchiati hanno toni di vaniglia per via del legno.
La gradazione alcolica varia sensibilmente con i prodotti industriali dai 37 ai 42 gradi, mentre i prodotti casalinghi spesso sfiorano anche i 55 ed oltre.

Altri distillati di origine vegetale

L’Arrack di Batavia è un distillato di canna da zucchero (98%) e riso rosso (2%) di origine indonesiana prodotto sull’isola di Java dal XVII secolo, dalle sapienti mani olandesi, veri maestri della distillazione.
Questa acquavite ancora prodotta in maniera tradizionale, è stata uno dei capisaldi della distillazione del XIX secolo, con le ricette di Jerry Thomas sino al “Mille Misture” di Elvezio Grassi del 1936, dove comprare decine di volte sia con funzione di base alcolica, sia come coadiuvante in virtù della sua misurata aromaticità.
L’Arrack era il compagno di viaggio ideale di zucchero, succo di limone e spezie, ed è per questo che divenne l’ingrediente base dei punch, il cocktail per eccellenza del periodo, che faceva della convivialità, per via della sua preparazione in grandi bowl, il suo elemento di successo.
Gli olandesi abili commercianti intuirono le potenzialità di un rum prodotto in questa area viste le difficoltà di approvvigionamento di distillati di pregio dall’Europa e dai paesi caraibici per evidenti problemi logistici, dovuti a lontananza e insicurezza delle rotte infestate dai pirati.
Il successo del prodotto, oltre che localmente, fu sinergico con quello della Compagnia delle Indie, che spediva spezie in tutto il mondo accompagnandole con carichi del distillato che divenne così famoso in tutta Europa.
Il distillato è prodotto partendo da un fermentato di melassa di canna da zucchero, prodotto abbondante sull’isola, che utilizza come starter del riso rosso.
Il cereale viene bollito e viene lasciato all’aria in modo che possa intercettare i batteri responsabili della fermentazione.
Il lievito che si forma, responsabile del gusto unico dell’Arrack di Batavia, lontano da un rum classico da melassa come ci si potrebbe aspettare leggendo la materia prima, viene unito, insieme al riso, alla melassa.
Il risultato viene distillato per ottenere un acquavite piuttosto potente che conta ben 50 gradi alcolici.
L’acquavite, dopo la filtrazione, sosta poi alcuni mesi in botti di legno teak, un albero tropicale noto per la compattezza delle sue fibre e per il colore scuro, per poi essere spedito in giro per il mondo.

La Bacanora è un distillato di agave prodotto in Messico nella regione di Sonora salito agli onori della cronaca agli inizi degli anni ’90, quando cessò di essere illegale.
Per lungo tempo, infatti, dal 1915 al 1992, la bacanora è stato considerato un moonshine, ovvero un’acquavite di contrabbando, che poteva essere acquistata solo sul mercato nero da produttori illegali.
Nel 1915 la produzione viene vietata, la ragione ufficiale è legata ai motivi di salubrità dei distillati artigianali prodotti senza controllo, anche se a questa motivazione si unisce anche la necessità di favorire i produttori registrati ed in regola, soprattutto di tequila.
Nel 2000 il governo messicano, sotto la spinta dei produttori ha regolamentato la sua produzione introducendo le aree entro le quali può essere distillata, la specie di agave con cui si deve ottenere il fermentato e le qualità organolettiche dell’acquavite, per tutelare il consumatore finale con limiti prefissati di metanolo ed alcoli pesanti.
Le agavi devono essere della specie Vivipara conosciute anche con il nome botanico di Angustifoglia, mentre le aree sono Sahuaripa, Arivechi, Cumpas, Huasabas, Bacanora e San Pedro de la Cueva.
La produzione è del tutto simile a quella del mezcal: la defogliazione delle agavi, la cottura per 48 ore in forni scavati nel terreno, la macinazione con torchi rudimentali in pietra, la fermentazione con lieviti selvaggi e la distillazione in piccoli alambicchi di rame e mattoni.
I produttori sono ancora piccole realtà artigianali con piccole produzioni che vengono assorbite dal mercato interno e dal crescente export per via dell’attenzione sempre maggiore per i distillati da agave.

Il Clairin è il rum primordiale dell’isola di Haiti che, dopo la nascita delle distillerie ufficiali, ha assunto il ruolo di prodotto illegale, povero, casalingo.
Prima dell’avvento delle grandi distillerie e delle colonne di rettifica, il rum ovunque nei Caraibi si produceva a livello famigliare ed artigianale, in rudimentali alambicchi di metallo e rame con improvvisate serpentine di rettifica.
La fermentazione, iniziata in maniera naturale con lieviti selvaggi presenti naturalmente nell’aria e sulla frutta lasciata spesso marcire nelle vicinanze, come in uso anche nelle nostre cantine prima dell’avvento dei selezionati, non poteva contare su contenitori in inox a temperatura controllata.
La fermentazione tumultuosa degli zuccheri per via del caldo avveniva in pochi giorni ma la materia  prima eccezionale, assolutamente a conduzione biologica, non per scelta ma per necessità, garantiva comunque ottimi profumi. È pratica comune aggiungere erbe aromatizzanti al mosto in fermentazione, sia per conferire profumi, sia in funzione antisettica, per evitare fermentazioni indesiderate.
La distillazione, come detto, avviene in rudimentali alambicchi di rame o con caldaia in muratura, tutti rigorosamente a fuoco diretto con piccoli elmi di deflammazione, senza colonna creola di rettifica.
Il taglio delle teste e delle code è ad opera del manovratore dell’alambicco e della sua esperienza, per questo non sempre tutti i distillati sono perfetti come sempre accade quando si produce in maniera artigianale.
La distillazione può avvenire in un unico passaggio, pratica molto diffusa nelle produzioni artigianali, o in due, con l’ottenimento di una flemma alcolica che subisce un successivo passaggio di concentrazione, utile anche ad una maggiore pulizia del risultato finale.
Nessun filtraggio se non con pezze di stoffa, primordiali maniche di Ippocrate, e nessun invecchiamento in quanto la cultura del legno non appartiene alla produzione contadina, come dimostrano grappa ed altri distillati.
Sull’isola di Haiti ci sono più di 500 distillerie all’opera, più o meno legali, nate dai primi dell’1800 ad oggi. Molte acquaviti sono assolutamente difettose con evidenti problemi di taglio di teste e code, mentre altre sono assolutamente straordinarie.

La Raicilla era il distillato illegale dello stato di Jalisco, il medesimo dove viene prodotto la tequila.
La storia di questa acquavite, divenuta legale in tempi recenti, è intimamente legata a quella della tequila di cui è l’alter ego, seppur prodotto con tecniche più vicine al mezcal. La materia prima è l’agave Angustifolia, la medesima del bacanora nelle aree montagnose, e quella Rhodacantha sulla costa.

La sua produzione pare sia iniziata sulle montagne grazie ai minatori che qui erano impegnati nel duro lavoro di estrazione.
Le analogie con la nostra grappa o altri distillati contadini sono evidenti.
Per corroborarsi e rendere meno pesante quella dura vita di fatica e sudore erano soliti elaborare un acquavite con l’unica materia prima disponibile in abbondanza ed a basso costo, l’agave localmente conosciuta come “lechugilla”.
La produzione del distillato avviene con la cottura delle agavi in forni di pietra, che anche se più piccoli, sono molto simili a quelli del mezcal.
Per questo motivo questa acquavite condivide i sentori leggermente affumicati e risulta al gusto più simile al “cugino” di Oaxaca che al tequila. I profumi non sono così netti e piacevoli, sempre rispetto alla tequila, e risulta più ruvido, fattore dovuto soprattutto agli alambicchi molto rudimentali, in muratura e terracotta, il cui sistema refrigerante risulta poco performante. I taglisono più difficoltosi, quindi spesso le teste e le code non sono eliminate con precisione. 

Le aree dove veniva prodotta storicamente erano Atenguillo, Etzatlan, Guachinango, Hostotipaquillo, Mascota, San Sebastian del Oeste, Talpa de Allende, El Tuito e Cimarron Chico de la Raicilla da cui prese il nome.
Il distillato dopo 400 anni di illegalità ora gode della denominazione di origine, la “Raicilla de Jalisco”.

Distillato di agave proveniente dalla regione messicana di Chihuahua e Durango.
L’acquavite è il risultato della distillazione di succo fermentato di una particolare specie di agave, la Dasylirion Wheelery, che cresce in quest’area, situata a mille metri sul livello del mare, ma le cui montagne toccano anche i duemiladuecento. La presenza di questa specie è testimoniata da pitture rupestri rinvenute proprio nelle caverne di queste montagne,datate 7.000 a.C..
Queste incisioni e pitture, popolate anche di animali ed esseri umani, ne attestano il suo utilizzo alimentare. In questa area vivevano tradizionalmente le tribù di indigeni conosciute come Anazis e Tarahumaran, che avevano fatto di questa pianta la loro fonte principale di sostentamento. L’agave è una vera e propria spugna d’acqua, riserva preziosa in caso di siccità prolungate. Gli abitanti del luogo la consumano cotta, mangiando la parte finale delle foglie interne, più tenere ed attaccate al torsolo. Il metodo di consumo ricorda da vicino quello del nostro carciofo.
Una volta privata della parte edibile, la fibra rimasta veniva utilizzata come ala stabilizzante per le frecce necessarie alla caccia di piccoli animali. Con le fibre delle foglie esterne venivano confezionati sandali, stuoie e suppellettili necessari alla vita quotidiana. I resti della fermentazione, una volta seccati, erano utilizzati per accendere e mantenere il fuoco, vista la scarsità di vegetazione con tronco di legno.
Il ciclo produttivo del Sotol assomiglia da vicino a quello del Mezcal artigianale, con la differenza che l’agave Dasylion impiega ben 15 anni per giungere alla maturità e a produrre lo stelo, che viene reciso all’inizio della sua formazione, per aumentare la produzione di linfa zuccherina. La raccolta della pianta matura avviene di solito alla fine dell’autunno, quando il caldo ed il sole hanno prodotto il massimo della fotosintesi e gli zuccheri sono concentrati, per la mancanza di piogge. I primi freddi degli altipiani porteranno gli sbalzi di temperatura necessari allo sviluppo dei precursori degli aromi.
La pianta privata delle foglie esterne e portata in distilleria dove viene cotta in forni artigianali o al vapore. Il processo ha il compito di liberare gli zuccheri complessi (inulina) dalle fibre di cellulosa. Questi, grazie al trattamento termico, si trasformano anche in zuccheri semplici fermentescibili. Il torsolo o pigna cotto viene poi schiacciato con macine a pietra, trainate quasi sempre da animali, per estrarne il succo, che sarà poi fermentato e distillato.
Il liquido ha un contenuto alcolico di circa 8 gradi e la sua distillazione è quasi sempre discontinua, in piccoli alambicchi di rame o misti, con caldaie in muratura.
Dal primo passaggio in alambicco si ottiene un liquido alcolico dal grado compreso fra i 26 e i 29 gradi, dal successivo si arriva ad avere in uscita dalla colonna, un’acquavite a 80 gradi, che verrà poi imbottigliata, dopo un periodo di riposo, ad una gradazione variabile dai 38 ai 40 gradi. La gradazione massima ammessa per il Sotol è 55 gradi, nelle versioni “Full Proof”.
La resa è piuttosto bassa, in linea con altri distillati, e consta di 10 litri di alcol per 100 litri di fermentato.
Il sotol ottenuto può essere consumato nelle tipologie: Blanco o Joven, dopo un breve passaggio in acciaio;Reposado, con un breve affinamento di alcuni mesi ad un anno in botti di legno, solitamente rovere americano o barrique francesi; ed Anejo con un invecchiamento di almeno un anno.
Il distillato ha dal 2002 un suo disciplinare di produzione ed è tutelato come i suoi cugini maggiori da un Consejo Regulador.
Pur avendo un metodo produttivo del tutto simile a mezcal e Tequila, il sotol viene considerato da questi ultimi un prodotto dal basso profilo qualitativo, non assimilabile alla loro produzione, soprattutto perchè la Dasylion è un agavacea, una sorta di pianta grassa e non un agave.

Distillato di Agave Azul proveniente dal Sudafrica, il cui metodo produttivo è del tutto simile alla Tequila, di cui utilizza anche la materia prima.
L’introduzione dell’Agave Azul Weber, qui ribattezzata “garingboom”, proveniente dal Messico, non ha una data certa, ma si fa risalire comunemente fra la fine del 19° secolo e l’inizio del 20°.
Le ipotesi accreditate sono tre.
La prima narra di un marinaio portoghese che la portò con se di ritorno da un viaggio, la seconda di una ragazzina che ne volle tre, come piante decorative da piantare nel giardino della fattoria.
La terza, forse la più credibile, afferma che furono portare in grande quantità dal Messico per popolare le lande siccitose dell’entroterra sudafricano.
L’eccezionale adattabilità di questa pianta alla mancanza di acqua, ma soprattutto le sue radici profonde, ne fanno un ottimo alleato per sconfiggere l’erosione e il dissesto idrogeologico. Inoltre, le foglie fibrose possono essere un nutrimento per il bestiame, qualora la siccità metta a rischio i pascoli. La storia dell’agave in Sudafrica ricorda da vicino quella del fico d’India, anche lui originario del Messico, ma diffuso in tutto il bacino mediterraneo per ragioni analoghe.
I terreni argillosi di questa area furono un ottimo habitat per le piante, che si diffusero rapidamente e furono piantate a migliaia dagli abitanti dell’area, conosciuta come Graaf Reinet.
La qualità dell’agave Azul e la contemporanea crisi produttiva di metà anni 90 delle coltivazioni in Messico, misero le basi per la partenza di una produzione di distillato da agave in Sudafrica.
Alcuni uomini d’affari fondarono la ReinetDistillery, che però per problemi produttivi e societari non partì mai in produzione.
Uno degli investitori, Keith McLachlan, riuscì a trovare il capitale necessario ad avviare la produzione dell’acquavite, che per motivi di tutela del marchio messicano, non poteva essere però chiamato Tequila.
Si decise per Agava, che diede anche il nome alla nuova distilleria.
Agava ricordava per assonanza la materia prima del Tequila e poteva suggerire al suo abituale consumatore, conoscitore del prodotto, le qualità del distillato.
Il metodo produttivo è uguale a quello messicano con la recisione della pianta prima della fioritura, la cottura della pigna e la sua spremitura. Il processo produttivo prevede una tripla distillazione e colonne per eliminare l’alcol metilico prodotto dalla lignina che compone le fibre della pianta. L’acquavite viene venduta nella versione bianca o silver, dopo un breve affinamento in acciaio, e in quella reposado, dopo una sosta in botti di legno per un periodo variabile, non dichiarato.
In passato ci sono state polemiche circa la qualità dell’invecchiamento, voci confermavano che questo non era svolto in botte, ma in vasche di acciaio contenenti trucioli di legno di quercia.
La diffusione sul mercato di Agava fu ovviamente osteggiato dai produttori messicani aderenti al CRT, che più volte misero in guardia la distilleria sudafricana dal mettersi in competizione sul mercato europeo ed americano, presentandosi come prodotto uguale, se non superiore, alla Tequila.
Il costo inferiore e una politica di marketing aggressiva in stile anglosassone misero in crisi i produttori messicani, preoccupati che il consumatore potesse confondere effettivamente i due prodotti.
Le battaglie legali si sono susseguite, ed ad esempio in Europa, si è deciso che per ragioni storiche, lo sfruttamento dell’immagine dei prodotti da agave sia un’esclusiva messicana.

I tre nomi AkpetishieOgogoro e Sodabi, indicano tutti un distillato ottenuto facendo fermentare la linfa della palma della specie Raffia, le cui fibre sono anche utilizzate per realizzare corde e manufatti. I vari nomi presenti sono rispettivamente originari del Ghana, della Nigeria e del Benin, e non si differenziano di molto nella produzione.
Il distillato come spesso accade in molte culture ha avuto ed ha tuttora una valenza spirituale.
Anticamente si consumava solamente  durante le feste religiose o durante i matrimoni, mentre ora il consumo ha perso questa valenza diventando di uso comune.
Durante queste cerimonie il sacerdote che officia versa una parte di distillato in terra, usanza comune a moltissime culture rurali in tutto il mondo, come segno di omaggio e restituzione alla madre di quanto tolto dall’uomo, per augurare buoni auspici e fortuna alla coppia.
Il metodo produttivo segue la logica degli altri distillati di origine vegetale e ha due metodi distinti.
Uno prevede che la palma rimanga in vita la seconda che venga abbattuta.
Con la prima si incide la corteccia della palma con speciali chiodi cavi, quando la pianta entra in fioritura, per poter avere il massimo del contenuto zuccherino nella linfa.
Ogni chiodo ha una tanica di plastica dove si raccoglie il liquido, che fuoriesce piuttosto copioso dalla pianta e che viene raccolto giornalmente, per evitare rifermentazioni indesiderate a causa del clima torrido.
La seconda invece prevede l’abbattimento della pianta, sempre nel periodo antecedente alla fioritura.
Il tronco viene messo in posizione obliqua, nel verso delle foglie, per seguire il percorso naturale della linfa, dalle radici alle foglie. In questo modo, si favorisce il deflusso totale della linfa all’interno di vasi, o se sprovvisti di essi, all’interno di un grosso foro che viene praticato prima della chioma.
A questo punto si fermenta la linfa, normalmente per 72 ore e si ottiene il “palmwine” o vino di palma che può essere consumato anche in questo forma.
La gradazione alcolica che si ottiene è intorno ai 4, massimo 5 gradi a seconda della palma e della stagionalità.
A questo punto si distilla il vino di palma all’interno di rudimentali alambicchi, spesso ottenuti da bidoni che hanno contenuto petrolio.
Il risultato, quasi sempre ottenuto con un solo passaggio, non ha nessun tipo di finezza, risultando spesso molto ruvido ed alcolico. L’acquavite dall’alambicco esce a circa 70 gradi e viene allungato, con acqua piovana, fino ai 50 gradi nelle versioni più “beverine”, o a 60 gradi nelle versioni forti.
Il distillato, consumato senza nessun tipo di invecchiamento, presenta anche una nota caratteristica di affumicato dovuta al fuoco diretto degli alambicchi che spesso, a causa del famoso “colpo di fiamma”, tendono a bruciare il liquido interno. Questa nota, per dare un riferimento di gusto, ricorda quella del mezcal anche se non ne possiede la finezza.
Altro problema è la presenza di alcol metilico che, a causa della distillazione artigianale, rimane nel risultato finale senza nessuna possibilità di ulteriore rettifica.
La produzione è per la maggioranza in mano ad artigiani e famiglie, ma presto si dovrebbe assistere ad un inizio di distillazione “industriale”, poiché la piaga dell’alcolismo, dovuta al consumo di alcol di bassa qualità ha assunto dimensioni preoccupanti, specie in Nigeria e Ghana.
La povertà estrema fa sì che spesso l’alcol sia utilizzato come unico mezzo di sostentamento, una situazione, che in qualche modo ricorda lo storico “Gin Craze” inglese.

Altri distillati di origine cerealicola

L’Akvavit è un distillato tipico di tutta l’area nordica europea, e vede impegnati nella sua produzione con sensibili differenze organolettiche Danimarca, Norvegia e Svezia.
La classificazione all’interno delle acquaviti di origine cerealicola è basata sulle ultime produzioni in essere sul mercato.
Storicamente, infatti, l’Akvavit poteva essere sia di origine cerealicola che vegetale, utilizzando le patate, con profonde attinenze produttive con altri due distillati nordici, il jenever e la vodka. Sarà un caso, ma il padre fondatore della Aalborg Distillery, Isidor Henius, ha origini polacche ed emigra in Danimarca a 13 anni, dove trova lavoro come apprendista in una piccola distilleria.
Le patate furono per lungo tempo la materia prima prediletta in virtù del basso costo, dell’abbondanza delle coltivazioni e della resistenza alle intemperie, mentre oggi è esattamente il contrario in quanto si preferiscono i cereali, che possono essere approvvigionati con minor spesa.
Il nome ha evidenti attinenze con il nostro termine “acquavite”, ovvero acqua di vita, intesa come prodotto alcolico.
La storia di questo distillato inizia ufficialmente nel 1846, e nel 1880 in Danimarca si contano oltre 2500 distillerie legali. Sicuramente la sua produzione inizia molto tempo prima, esiste infatti uno scritto fra un signorotto danese ed l’arcivescovo norvegese che riporta di una acquavite prodotta in Danimarca già nel XV secolo, con doti curative eccezionali.
Ricalcando fedelmente la storia di tutti i prodotti alcolici del mondo, anche questo era molto prezioso e veniva consumato solo per scopi curativi e corroboranti dai malati, o in occasioni speciali come matrimoni e battesimi, o nelle ricorrenze come Natale e Pasqua.
Con l’avvio della produzione industriale ed al suo abbassamento di costo, divenne un distillato di uso comune, anche se mantenne la sua connotazione legata alla festa.
La produzione è del tutto simile a quella di altri distillati cerealicoli. Avviene la maltazione, ovvero il germogliamento dei cereali per la trasformazione degli amidi in zuccheri. Dopo di chè i cereali sono fatti nuovamente essiccare, vengono sfarinati e mescolati con acqua, portata in temperatura per favorire lo scioglimento degli zuccheri. Vengono inoculati i lieviti e la fermentazione avviene a temperatura controllata. Una volta la produzione era solamente in inverno, per sfruttare il clima freddo e avere così un maggiore controllo sulle temperature, cosa che evitava eventuali fermentazioni acetiche indesiderate.
Il mosto viene passato in alambicchi che sono solitamente continui, con colonna di rettifica.
I passaggi sono normalmente due e, grazie alle colonne non molto alte, il distillato viene pulito ma conservare comunque alcuni profumi, contrariamente ad esempio alla vodka.
I sentori di materia prima, ovvero profumi di granaglia e dolcezza per via del mais, sono ben presenti anche se meno intensi rispetto al jenever.
Il vero tratto connotante del prodotto non è tanto nella distillazione, quanto nella successiva aromatizzazione del distillato, infatti, al termine del processo di rettifica, l’acquavite viene posta a riposare in botti ed aromatizzata con cumino ed aneto, talvolta coriandolo o scorze di limone. Un’altra variabile è l’invecchiamento in botti che hanno contenuto sherry o madeira o botti nuove di quercia.
Il gusto di tutte queste acquaviti è decisamente rotondo, delicatamente speziato, con una sensazione di dolcezza finale dovuta sia ai botanici sia all’aggiunta legale di zucchero al distillato.

L’eau de vie de biere nasce in Alsazia, da un’idea di Wolfberger, un produttore di birra ed altri distillati di frutta.
In realtà Wolfberger ha semplicemente riportato in vita un’usanza dell’area, ben descritta dal “Manuale del Distillatore” di M. Lebeaud edito a Parigi nel 1835, dove si consiglia di distillare la birra in eccesso o in odore di acescenza con l’arrivo dei primi caldi.
Il successo di altri distillati e il contemporaneo balzo in avanti della tecnica di brassazione con i tini refrigerati, avevano semplicemente spedito nel dimenticatoio questa acquavite.
Normalmente si usa dire che il whisky sia un distillato di birra, omettendo che in realtà pur trattandosi tecnicamente di un fermentato di cereali a questo manca l’elemento base caratterizzante, il luppolo.
Questa erba, i cui fiori amari sono usati da almeno 400 anni per aromatizzare ed evitare fermentazioni indesiderate nella birra, connotano in maniera determinante il distillato.
La distillazione infatti non trasmette le note amare tipiche del luppolo ma ottimi sentori erbacei, che si traducono in profumi, grazie anche ai lieviti speciali utilizzati, in frutta tropicale e spezie.
Le Ipa, Indian Pale Ale, di ultima generazione profumano nettamente di papaia e mango, con un gusto decisamente amaro, grazie all’azione combinata di speciali lieviti e luppoli.
In questo caso,Wolfberger parte da una Biere de Garde classica della zona, di buona gradazione, che provvede poi a distillare in alambicco discontinuo in due passaggi.
Il risultato viene filtrato ed imbottigliato senza nessun passaggio in legno.

Distillato di cereali prodotto in Germania, utilizzando un mix di grano, segale, avena ed orzo. Qui resistono alcune distillerie storiche e realtà produttive più grandi che producono ingenti quantità di acquavite, venduta spesso in piccole bottigliette tascabili. La sua nascita viene fatta risalire al XVI secolo nei pressi di Nordhausen nella Turingia, dove divenne la principale attività produttiva.
L’acquavite ebbe una grossa diffusione ed anche il padre di Otto von Bismark, il famoso cancelliere dell’impero Tedesco di fine ottocento, aprì una distilleria a Schonhausen nel 1799.
La sua distillazione avviene quasi sempre per mezzo di colonne ed il suo sapore risulta piuttosto neutro. Al naso risultano deboli sentori di granaglia, e la nota eterea è quella maggiormente presente. La sua gradazione alcolica varia fra i 30 gradi del Korn ed i 37.5 del DoppelKorn. 

Esiste un editto riguardante la produzione del Korn risalente al 1909, dove vengono dettate rigide regole, tra cui: divieto di aggiungere aromatizzanti, edulcoranti o coloranti; divieto di utilizzo di cereali di scarto dei mulini; e infine è vietata la miscelazione di alcol molassi. 

Il Korn non viene mai invecchiato e la sua vendita è per il consumo esclusivamente liscio come correttore per caffè o birra. Sostanzialmente questa base alcolica è il solvente per la produzione dello SteinHager, l’acquavite aromatizzata al ginepro.

Il Moonshine, tradotto in “Chiaro di luna”, fa ben capire che i distillatori clandestini lavoravano di notte, utilizzando il chiarore della luna per compiere le operazioni necessarie.
In Italia invece si dice che i distillatori illegali prediligessero le notti nebbiose, per dissimulare il fumo del fuoco.
Probabilmente l’isolamento assoluto di alcune regione americane, specie sui monti Appalachi, i cui boschi erano sede di molti mooshiners, rendeva inutile questo ulteriore accorgimento.
Questa acquavite veniva anche chiamata, per questo motivo “Mountain Dew” ovvero la “Rugiada delle montagne”.
Questo prodotto ha ottenuto l’attenzione dei Media, tanto che nel 2012 Sky ha messo in programmazione una serie di documentari che riprendevano la vita dei moonshiners e le loro imprese, che hanno evidenziato come sia in assoluta crescita.
La polizia lotta contro questa nuova moda che di fatto ha creato e crea grossi problemi di salute ai consumatori, poiché spesso la materia prima non è eccelsa e gli alambicchi sono fatti con materiali di recupero.
Alcuni usavano vecchi radiatori come condensatori, non sapendo che all’interno potrebbero ancora esserci tracce di glicogeno, l’antigelo utilizzato per l’acqua di raffreddamento dei motori, oppure il tossico piombo, usato per i giunti delle tubazioni.
In certe aree, alcuni moonshiners sono diventati dei veri e propri miti, con un’infinità di storie da raccontare, ed alcuni, piuttosto vecchi sono delle vere e proprie icone.
Fortunatamente anche in questo caso alcune aziende hanno iniziato a produrre moonshine a livello industriale, pertanto controllato e distillato con alambicchi certificati.

Unico prodotto dell’industria della distillazione cinese a meritare attenzione, che altrimenti si distingue per acqueviti aromatizzate alla rosa, come il Mei Kuei, o alla radice di gingseng.

Il Mou Tai, chiamato dai locali “alcol bianco” ha una storia centenaria che affonda le radici nel medioevo cinese.
Sembra che addirittura Mao Tse Tung in persona abbia raccontato delle virtù di questo liquore nel 1935, quando arrivò con le sue malandate truppe in una fabbrica di liquori abbandonata nel villaggio di Mou Tai.
I suoi soldati stremati bevvero il forte liquore e il giorno dopo ripresero molto più rinfrancati nello spirito la loro marcia.
Il liquore fu anche usato come disinfettante delle piaghe che solcavano i piedi, provati dalla lunga marcia, per via dei suoi 70 gradi.
Alla ripresa della marcia, i soldati intonarono canzoni inneggianti al liquore, pregando Mao di elevare agli onori di stato questo liquido miracoloso, una volta conclusa vittoriosamente l’impresa.
La vittoria arrivò e per i rivoluzionari cinesi il Mou Tai divenne uno dei simboli della vittoria.
Nel 1915 il MouTai vinse una medaglia d’oro come miglior liquore dell’epoca e questo gli spalancò per sempre le porte del successo mondiale.
Nel 1972 Richard Nixon apprezzò lo sconosciuto liquore e ne parlò in maniera entusiastica nel suo report. Infatti dopo la nascita del Partito Popolare Cinese, il MouTai rimase all’interno delle mura nazionali, vincendo comunque svariate competizioni interne contro altri liquori.
La storia del liquore è molto antica e alcuni documenti datano la sua nascita ben 260 anni fa, ma la sua nascita ufficiosa potrebbe essere ancora più antica.
La retro etichetta del liquore recita che la produzione iniziò ufficialmente nel 1704.
Il villaggio di Mou Tai nella prefettura di Guizhou, sarebbe il luogo di origine, per via della sua forte tradizione nella coltivazione cerealicola. Lo sviluppo dei commerci e delle vie di comunicazione diffusero il distillato nel territorio cinese, grazie anche al successo delle spezie provenienti da Setchouan e Kweichow.
Le due aree erano zone di frontiera e i ricchi commerci attiravano ogni sorta di persona, da ogni angolo del paese, che così entravano in contatto con il liquore.

Il metodo produttivo non è molto chiaro e l’azienda, la KweichoeMoutai Company, è piuttosto ermetica circa i processi attuati. Da alcuni articoli trapelati sulle rare riviste di settore, si sa che questo ricalca a grandi linee quello dei distillati di cereali. Nel caso di questo pregiato liquore, si avvia la fermentazione con lieviti selezionati e poi si distilla il mosto alcolico. Nelle produzioni contadine si dice invece che la stessa sia avviata con dello stallato, particolarmente ricco di batteri. La particolarità sta nel fatto che la fermentazione, ottenuta con particolari ceppi coltivati localmente, è in qualche modo simile ai processi “a secco” tipici della vinaccia bianca della grappa. Infatti, i cereali non vengono sfarinati e ammostati in acqua, come nel whisky, ma lasciati interi a fermentare in buche o silos appositi. Il cereale germinato viene messo per intero a fermentare in ambienti chiusi, cosa che dà inizio a particolari processi ossidativi che ritroveremo anche nel distillato. Una volta che il processo ha raggiunto i livelli desiderati d’alcol, il quale si trova, come nella vinaccia, nei tessuti vegetali della materia prima, si procede alla disalcolazione. Con un alambicco a getto di vapore o “a vinacce immerse”, si provvede a formare la flemma alcolica da distillare. Il liquido alcolico che si ottiene viene posto in giare di porcellana scolme, in modo che l’ossidazione sviluppi i profumi tipici del liquore. Ovviamente anche in questo caso, la parte degli angeli gioca un ruolo fondamentale nell’abbassamento del grado alcolico, che rimane comunque molto elevato. L’invecchiamento in queste anfore di porcellana può protrarsi anche per 80 anni e questo ne fa il prodotto esclusivo che noi conosciamo. La porcellana limita l’evaporazione e il gusto si modifica, grazie ai processi chimici che avvengono all’interno della bottiglia.
L’invecchiamento avviene all’aria aperta o in magazzini esterni esposti agli sbalzi di temperatura e agli eventi climatici, mutuando quello di alcuni grandi vini fortificati o distillati di pregio.
Il liquore viene dolcificato delicatamente ed ha un aroma piuttosto particolare, di salsa di soia, che non incontra il nostro gusto europeo.
Il Mou Tai viene prodotto attualmente con sorgo, anche se altre fonti riferiscono di grano e miglio.
Probabilmente anticamente veniva utilizzato il cereale che aveva avuto i migliori ed abbondanti raccolti, un po’ come capitava in Italia per il vino.
Il Mou Taiè oggi la bevanda dei ricchi per antonomasia, mentre fra il popolo si è diffuso il consumo del Baijiu, un surrogato dello stesso.
Una bottiglia del prezioso liquore costa circa 250-260 euro, mentre alcune invecchiate di annate particolarmente pregiate possono raggiungere i 3500, e questo ne fa il sogno proibito di tutti i cinesi, oltre che un vero e proprio status sociale. 

In una recente asta una bottiglia risalente alle prime produzioni è stata venduta per un milione e mezzo di dollari.
In tempi recenti l’azienda per limitare i costi ha provato ad aprire altre fabbriche in giro per la Cina, che però ha dovuto successivamente chiudere poichè il gusto del liquore non era lo stesso.
Si pensa che la magia sia dovuta alle acque del fiume Chishui, utilizzata per produrre il MouTai.
La capacità cinese d’imitazioneha creato ovviamente un clone, un liquore di qualità inferiore, che viene consumato dal popolo, avendo un prezzo decisamente più accessibile.
Lo stile produttivo è molto simile, ma cambia l’invecchiamento e il pack, che è decisamente meno raffinato, e la cui bottiglia è chiusa con tappi di plastica.
Non contenti della sola imitazione a prezzi bassi, alcuni si sono cimentati anche nella contraffazione.
Recentemente sono apparsi su internet articoli dove venivano sequestrati ingenti carichi di MouTai, ritenuto originale, abilmente contraffatto.
La crescente ricchezza cinese e la voglia di consumo di prodotti esclusivi dei nuovi nababbi ha creato, secondo l’articolo, una rottura di stock dell’azienda, che ha aumentato i prezzi delle poche bottiglie rimaste. Questa crescita di prezzo ha reso interessante la sua contraffazione.

Il Bimber è un distillato illegale polacco, un moonshine la cui materia prima è piuttosto varia e va dalla segale alle patate o frutta. Con bimber infatti si definisce un distillato casalingo e non un “disciplinare” produttivo.
A ben guardare, la stessa cosa accade per la vodka dove le materie prime possono essere più disparate dalle patate alle mele.
La distillazione familiare è proibita dal 2004 ma, vista la tradizione radicata nelle campagne, nessuno applica la legge alla lettera.
Prodotto in casa o nelle campagne è un prodotto che si caratterizza per la scarsa finezza e gradazioni alcoliche piuttosto elevate.
Si hanno notizie di produzioni casalinghe anche con semplice zucchero semolato addizionato ad acqua e fatto fermentare, il cui risultato è quasi privo di gusto e l’unico pregio è di essere molto alcolico.
La distillazione normalmente viene seguita con pentole modificate scaldate sul gas di casa o in alambicchi di rame usati anche per ottenere acquaviti di frutta.

La moda dilagante del moonshine che ha origini americane, ha fatto sì che anche il Poteen o Poitin, l’acquavite illegale, prodotta da metà della popolazione irlandese all’interno delle proprie case, ritornasse in auge.
Tradizionalmente il Poteen è a base d’orzo, ma in passato, con l’arrivo delle patate dalle Americhe, spesso si ricorse anche a questo tubero, alla base dell’alimentazione della popolazione irlandese. Non mancarono anche delle interpretazioni con la barbabietola da zucchero, quando cereali e patate scarseggiavano.

Già nel 1161 King Charles introdusse una forte tassa sulle acquaviti, che in Irlanda fu praticamente ignorata, in quanto una grande parte della popolazione distillava illegalmente.
Nove anni dopo la Corona emanò un editto che dichiarava fuorilegge i distillatori, pertanto le sanzioni sarebbero cambiate: da evasori delle tasse a criminali…
Per questo motivo l’impianto di distillazione si spostò dalle case, ai boschi e alle isolette in mezzo ai laghi che venivano raggiunte notte tempo, dando vita al fenomeno dei moonshiners, i distillatori al chiaro di luna.
Nel 1760 il Poteen fu definitamente messo fuori legge, anche per salvaguardare la salute della gente, che consumava alcol ricco di impurità, con sanzioni pesantissime per coloro che fossero scoperti a distillare.
Il Poteendivenne nuovamente legale a partire del 1997, ma a gradazioni inferiori, prodotte in distillerie controllate, anche se non manca ancora una buona presenza di distillatori illegali, che continuano a produrre per proprio consumo il potente distillato.
Il distillato è talmente presente nell’iconografia popolare che sarebbe stato impossibile estirparlo, cantato da artisti, dipinto, bevuto a guisa di ispirazione e protagonista del titolo di un film del 1979.
Il più importante di tutti gli artisti è sicuramente Shane Mc Gowan, cantante prima dei Pogues e poi del suo gruppo omonimo, che la cita nell’album “The Snake”.


Il sistema produttivo è simile a quello del whiskey, di cui rappresenta la versione bianca, senza invecchiamento.
La distillazione avveniva di notte, preferibilmente nelle serate di nebbia, nei boschi, a ripari da occhi indiscreti, in appositi spiazzi preparati con cura settimane prima.
Una volta germinato l’orzo nell’acqua per un paio di giorni, lo si seccava mettendolo vicino al fuoco. Questa operazione conferiva al distillato una leggera tipica nota affumicata, da non confondere comunque con la torbatura degli scozzesi.
Una volta essiccato lo si macinava grossolanamente e lo si metteva nuovamente in acqua, per attivare la fermentazione che poteva essere naturale, con lieviti selvaggi del bosco, o indotta con lieviti selezionati, in mano al distillatore.
Dopo tre massimo quattro settimane, si ritornava sul posto per iniziare la distillazione, con alambicchi a collo corto, rudimentali, che trasferivano molto del carattere della materia prima all’acquavite, che si caratterizza per forti sentori di granaglia.
Il fuoco era diretto, a legna, che creava molti problemi, con il famoso “colpo di fiamma” che poteva innalzare la temperatura della caldaia e bruciarne il contenuto, mentre in tempi recenti, si usa utilizzare delle moderne bombole a gas, con bruciatori, facilmente controllabili.
La prima parte della distillazione, le teste, molto pericolose, per la presenza del metilico venivano scartate rovesciandole a terra, commentando che era “…Per il popolo delle fate e dei folletti”.
In realtà era una sorta di rituale propiziatorio, ovvero restituire alla Terra una parte di quanto preso, presente in molte culture.
L’acquavite prodotta, da singola distillazione, veniva messo dentro un secchio e poi veniva imbottigliata e tappata frettolosamente sperando che non arrivasse l’esattore delle tasse.
La gradazione alcolica poteva essere di 70-80 gradi, ma vi erano produzione che dichiaravano di avere 90 gradi, praticamente dell’alcol anidro prodotto con alambicchi rudimentali.
Il distillato non veniva invecchiato o allungato con acqua, ma veniva subito venduto a privati o a bar locali, che lo avrebbero venduto sottobanco.

Distillato russo di antica tradizione, da molti considerato il progenitore della vodka, arrivata decenni dopo, grazie all’ammodernamento delle tecnologie di distillazione con la nascita degli alambicchi continui con colonne di rettifica.
Proprio in questo sta il fondamentale dualismo che il fondatore della Rodionov& son Private Distillery vuole enfatizzare: il polugar ha gusto e una struttura, mentre la vodka è pressochè insapore, per via del suo processo di distillazione e filtrazione.
Rodionov è uno storico che a lungo si è occupato di ricerche sulla vodka e che a sua volta si è appassionato al polugar, dopo le sue scoperte.
Sostiene infatti che la storia della distillazione vada riscritta alla luce delle sue scoperte su questo antico distillato di tradizione contadina.
Polugar in russo si può tradurre sommariamente in “vino di pane mezzo bruciato” e la sua presenza nella storia russa è ben documentata da scrittori come Krylov nel suo libro “Due Uomini” del 1825, e Belinskiy in “San Pietroburgo e Mosca” del 1844.
Un decreto del 1842 dello zar Nicola I ne definisce i parametri di qualità.
Questi scritti e decreti sono coetanei di quelli relativi alla vodka, infatti gli zar si appropriarono del sapere della distillazione statalizzando la produzione di acquavite, per trarne vantaggio dal gettito fiscale.
Il dualismo potrebbe essere spiegato con il fatto che il Polugar, così come il Bimber polacco, fosse il distillato casalingo ottenuto con alambicchi rudimentali e la vodka il prodotto industriale.
Come accaduto in altri paesi, come l’Irlanda, di cui detto sopra, ad un certo punto si decise di mettere fuori legge il distillato casalingo, per evitare danni alla salute, ma soprattutto l’evasione fiscale.
Il metodo produttivo è analogo agli altri distillati di granaglie.
In questo caso il fermentato è ottenuto da sola segale, il cereale per eccellenza delle fredde pianure russe e polacche. La distillazione, in un unico passaggio, avviene in alambicchi di rame a collo basso, senza colonne di rettifica, che lasciano all’acquavite un forte sentore di granaglia e una persistenza di frutta secca.
Il Polugar Single Rye, con una gradazione di 38,5 gradi, sa intensamente di pane di segale, soprattutto di crosta, da qui anche il suo nome, per via della ricchezza di oli di flemma che invece mancano quasi completamente nella vodka. Tendenzialmente si tagliano piuttosto presto le code nei distillati di cereali, per via della presenza di molti alcol pesanti, ma in questo caso sembrerebbe che si sia andati leggermente più avanti.
La consistenza dell’acquavite, infatti, è “oleosa”, così come capita con altri distillati ricchi di oli di flemma, come la nostra grappa, che trae il gusto proprio dalle frazioni di coda. Da segnalare il finale gradevolmente amarognolo tipico anche di alcune vodke con questo cereale.
Il distillato riposa un mese, il tempo necessario a smorzare la sua irruenza naturale. L’abbinamento consigliato è un classico: un buon sigaro.

Distillato casalingo russo, che divenne via via più prodotto, dopo l’inizio del monopolio statale nella distillazione della vodka, iniziato dallo Zar Pietro il grande nel XIV secolo. Il costo dell’alcol, bene di prima necessità per lo stile di vita russo, gravato dalle continue tasse necessarie al sostentamento della corte imperiale e delle continue guerre, costrinse il popolo ad affinare il sapere della distillazione casalinga. I risultati furono spesso dannosi per la salute, ma incuranti di questo, tale produzione non cessò mai di esistere, nonostante anche le repressioni attuate dalla polizia, che in tal modo voleva evitare l’evasione delle imposte. Le punizioni erano quantomai severe. La produzione del Samogon era varia, in quanto non esisteva una materia prima codificata e con questo nome si riconosceva un distillato da miele, zucchero di barbabietola, frutta e granaglie in genere. Dipendeva dalla reperibilità della materia prima e dal suo costo, mentre il metodo produttivo non variava mai, prevedendo una fermentazione e una distillazione con alambicchi rudimentali, spesso nella cucina dell’abitazione.
Recentemente, sull’onda del successo delle produzioni legali di distillati casalinghi, come i precedenti descritti, anche il Samogon ha avuto il suo epigone legale, la Kosogorov, che ha messo in produzione un’acquavite da cereali con questo leggendario nome. Il Samogon è considerato infatti la bevanda nazionale alla stregua della vodka, che però ha un’area di prodotto “premium” e raffinato. Ma il Samogon è ben più antico e radicato nella cultura popolare e proprio su questo puntano i produttori, per il suo successo commerciale.
La sua produzione è iniziata nel 2003, ma da noi le notizie sulla sua esistenza sono arrivate ufficialmente solo nel 2011. Nikolay Poluektov, il titolare della distilleria, e di fatto “inventore” del prodotto, dichiarò un fatturato cinque milioni di dollari nel 2007, mentre oggi non è dato a sapersi. Il suo distillato viene venduto molto più caro rispetto alla vodka, circa tre volte tanto, ma al consumatore, affezionato al gusto dell’acquavite illegale, sembra non importare. Ci vogliono circa 30 dollari per una bottiglia di Samogon, contro i 10 di una di vodka, ma il gusto, assicurano gli affezionati, è completamente diverso. La materia prima, le granaglie, è molto più riconoscibile al naso, i sentori di “birra” emergono nettamente dal bicchiere, mentre nella vodka prevale la nota eterea e di lievito. La ragione è il metodo produttivo in quanto l’alambicco della distilleria non è dotato delle alte colonne di rettifica, tipiche della vodka, che snaturano la materia prima, portando a gradazione prossima a quella dell’alcol puro. Il basso capitello non “filtra” la materia prima, che rimane pressochè intatta nel bicchiere. Questa caratteristica così netta rende, come per altri moonshine, piuttosto difficile la sua miscelazione, se non con i classici sour, con zucchero e limone.

Lo Steinhager è una di Jenever Olandese, prodotto in Germania nella zona della Westfalia, la regione confinante con Olanda e Belgio.
Per una questione di vicinanza e contaminazione culturale, i tedeschi presero a produrre un distillato simile al Jenever, non avendo però medesimo successo e distribuzione. La storia dello Steinhager è relativamente più recente ed inizia ufficialmente nel 1688, quando Federico Guglielmo di Brandeburgo concesse in esclusiva agli abitanti di Steinhagen di produrre questo distillato aromatizzato con le bacche di ginepro. All’indomani dell’editto sorsero ben 20 distillerie di cui oggi ne rimangono solo 2: la Schilichte fondata nel 1766 e la Furstenhofer, di proprietà della BrennereiKisker, fondata nel 1732. La seconda si riesce a trovare anche in Italia in qualche bottiglieria specializzata. Dal 1989 ha una sua “doc” protetta dalla comunità europea, che ne vincola il metodo produttivo.
Il metodo produttivo è simile a quello di altri prodotti della tipologia.
Con la prima distillazione si disalcola un fermentato ottenuto solitamente da un mix di grano, con percentuali di orzo e segale. Queste variano a seconda delle ricette, così come la quantità di ginepro. L’alcol viene aromatizzato con le bacche che crescono esclusivamente nella Foresta di Teutoburgo, per poi venire ridistillato. La presenza del gin è piuttosto delicata e assomiglia maggiormente ad un Jenever. A differenza però di quest’ultimo, che ha abbandonato la tradizionale bottiglia in terracotta, in nome di una più pratica bottiglia di vetro, lo Steinhager continua ad utilizzarla. Normalmente viene commercializzato ad una gradazione intorno ai 38 gradi.

Whisky - Giapponese

1952

MasatakaTaketsuru, dopo alcuni anni di studio in Scozia, torna in patria e fonda la distilleriaNikka a Yoichi, cittadina dal clima simile a quello delle Highlands, con acqua povera di ferro, ideale per la distillazione. Ne costruisce poi una seconda nel Nord del Giappone, a Miyagiken, zona dal clima piovoso e umido simile a quello della Scozia. 

Inizia il successo della distillazione giapponese 

A Yamazaki nel frattempo, il gruppo Suntory, forte delle prime distillazioni eseguite da Masataka, inzia a produrre un prodotto chiamato Shirofuda, o Suntory White, ma arriva al successo grazie all’Hibiki, uno dei prodotti più venduti in assoluto. 

2021

Entra in vigore il disciplinare del whisky giapponese, redatto dalla Japan Spirits and Liqueurs Makers Association.

Il nuovo disciplinare prevede l’uso di cereali maltati, altri cereali e acqua provenienti esclusivamente dal Giappone. È fatto obbligatorio utilizzare grani maltati per la produzione di whisky. Ne deriva che il Japanise Whisky sarà una super nicchia molto costosa in quanto sarà impossibile che, considerato il successo riscontrato, la materia prima possa provenire esclusivamente dalle campagne giapponesi. Ad oggi infatti molti malti d’orzo arrivano dalla Scozia.

Il metodo di produzione fa fede a quanto detto sinora per gli altri whisky. Tutti i processi devono avvenire su territorio giapponese. La percentuale di alcool al termine della distillazione non può superare il 95%, il che presuppone l’utilizzo delle colonne ad alto grado. Ma per i prodotti di pregio come i single malt si usa esclusivamente il discontinuo la cui forma ricorda molto da vicino quella degli alambicchi scozzesi. Il grado finale non viene dichiarato ma presumibilmente sarà sui 70 gradi.

Il whisky giapponese deve maturare esclusivamente all’interno di botti in legno di quercia, dalla capacità non superiore ai 700 litri, per almeno 3 anni. Il processo di invecchiamento deve avvenire rigorosamente in Giappone.

Al termine della produzione può essere imbottigliato solamente nel Paese del Sol Levante e deve avere una gradazione di almeno 40%. È consentito inoltre l’impiego di caramello per l’uniformità del colore.

Sulle etichette dei whisky giapponesi si leggono le medesime diciture dei prodotti europei,come blended, single malt, no chill filtering etc etc.
Per sopperire alle richieste, e non essendo disponibili malti lungamente invecchiati, venduti ormai a prezzi del tutto simili alle super riserve scozzesi, i produttori giapponesi hanno iniziato a produrre i whisky detti NAS (no age statement). In verità questa non è una tendenza solo giapponese ma risponde alla sempre maggiore richiesta di prodotto che mal si concilia con i tempi di invecchiamento. Partendo dal presupposto che non sempre il lungo invecchiamento è sinonimo di qualità assoluta i blender giapponesi hanno preso a miscelare malti giovani, spesso con il minimo di legge, fruttati e freschi, con una piccola parte di riserve importanti.

La prima cosa che verrebbe in mente di abbinare è il sushi, magari fatto con pesci particolarmente grassi, abbinandolo con un whisky fruttato poco invecchiato. Con un prodotto più complesso si potrebbe pensare ad un Camenbert, oppure uno speziato pollo cotto nel forno tandoori.

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